Il post di oggi è dedicato al blogtour di Léo Malet: Delitto al luna park, edito da Fazi Editore. La mia tappa del romanzo è dedicata ad un estratto relativo al secondo capitolo. Questa invece la sinossi:
È maggio, a Parigi. Il XII arrondissement, un tempo teatro importante della Rivoluzione, è oggi pungolato dalla cosiddetta doccia scozzese: un acquazzone, un raggio di sole, un raggio di sole, un acquazzone… Nestor Burma è in stazione ad attendere il ritorno di Hélène da Cannes, ma dal treno la segretaria non scende. Così, il detective si mette a vagare per Parigi e finisce in un luna-park. Seguendo le gambe di una bella donna, sale sull’ottovolante, ma è ignaro di essere a sua volta pedinato: durante la corsa, viene aggredito da un passeggero seduto alle sue spalle. Neanche a dirlo, in un attimo il malcapitato viene scaraventato giù dalla giostra – e la caduta è fatale. Come se non bastasse, il detective scopre che l’anno prima una ragazza è precipitata giù dalla stessa giostra. Troppe coincidenze, per i gusti di Burma, che decide di approfondire. Ferma innanzitutto la donna che stava seguendo: il suo nome è Simone Blanchet, e ben presto si rivelerà coinvolta nella scomparsa di un bottino di 150 chili d’oro. La storia inizia così ad assumere dei contorni davvero singolari…
Capitolo 2
Brutto scherzo sull’ottovolante
La mia solitudine va a finire dove vanno a finire tutte le solitudini. Al luna-park. Dopo aver capito che Hélène per quel giorno non sarebbe arrivata, ero ritornato alla terrazza del Café des Cadrans a scolarmi un digestivo. Poi ero andato a togliere il macinino da rue Abel e mi ero messo a guidare senza mete precise verso il centro di Parigi. Non avevo voglia di andare a dormire, non avevo voglia di non dormire, ero incapace di dire di cosa avessi voglia o non avessi voglia. Mi scocciavo alle... a che ora? Neppure questo sapevo. E proprio aspettando a un incrocio che il semaforo diventasse verde il mio sguardo aveva catturato una locandina affissa contro la vetrina di un bistrot. «LUNA-PARK MILLENARIO IN AVENUE DU TRÔNE». Ci avevo fatto rotta sopra.
Hanno cercato di fare le cose alla grande. All’imbocco di place de la Nation hanno eretto uno scenario che sa ancora di abete piallato, di segatura e di pittura fresca, e che dovrebbe rappresentare la porta di una città medievale, dalle spesse mura grigie. Passo sotto un arco che cerca di essere trionfale, dove s’incrociano file di lampadine multicolori. Imboscato sotto una specie di balconcino merlato, un giradischi che fino ad allora se ne stava tranquillo saluta il mio arrivo con un’esecuzione fragorosa della Lavanderina del Portogallo. Il mio orecchio destro ne è martellato come sotto una scarica di colpi. Il sinistro è assalito da un aggressivo Paris-Canaille. Ma dove sono le lancinanti pianole di un tempo, gli strimpellatori da bassifondi? A coronamento di tutto, i decompressori delle giostre producono il loro frastuono irregolare, facendo tremare il suolo. Un odore eterogeneo investe a tradimento le mie narici. La cicca dell’ispettore Grégoire, a confronto, usciva da Carven. Sa di olio di motore, di fritti e frittelle, di pasta frolla, di polvere e di profumo dozzinale di cui s’impregnano le servette un po’ brille come i loro vanesi cavalieri. Non fa abbastanza caldo perché ci si mescoli anche il sudore. Peccato.
Mi confondo tra la folla.
Lottatori, tiri a segno, lecca-lecca, lotterie. Fate il vostro gioco, la ruota parte, esce il 15. Il 15 vince i cinque chili di zucchero. Chiaroveggenza, chiromanzia. Oroscopo dell’amore. Altalene. Il nano a due teste e l’uomo tutto mani. Il ragazzo colosso. Vent’anni, due metri di giro vita. Emma e i suoi serpenti. Eva e le sue figlie. Solo per adulti. Museo Dupuytren. Curiosità patologiche. Da qualche parte, schiacciano i piedi a Gilbert Bécaud, poiché barrisce più forte del solito. Si lotta a tutto spiano. Alla mia destra, Aimable de la Calmette, campione di tutte le categorie, e altri. Alla mia sinistra, Kid Batignol, la gloria australiana, come indica il nome. Greco-romana, catch, pancrazio e combattimento da strada, tafferuglio da spaccare tutto, a richiesta. Sfida alla folla, sfida agli atleti del podio, sfida alla donna che suona il tamburo. Si lotta a tutto spiano. Il guanto è gettato. In pieno muso di uno che non è nel giro. Kid Batignol contro X... il dilettante-professionista che spadroneggia da dieci anni. Per di qua, signore e signori, per un incontro sensazionale. Sport, sport, sempre sport. Forza, forza, la festa continua. Grida di animali, urla, zufoli, risa, pianti. Zucchero filato. Pulci di Lione. Battesimo di maiali. Schiocchi secchi di carabine, di pistole. Provate la vostra abilità. Tentate la fortuna. Uovo su uno zampillo d’acqua, uovo beffardo e ballerino, il Serge Lifar del tiro a segno. Pipe di gesso che ruzzolano. Cento franchi cinque palle di stracci. Gong. Piramidi di vecchie scatole di conserva che crollano. E la ruota parte. Rotor. Labirinto. Palazzo degli specchi. Giro della morte. Motorette scoppiettanti. Casa delle streghe. Scheletro che ti fa il solletico. Vecchia divorata dalle tarme che tiene il microfono come una sputacchiera. Lo spettacolo si rivolge agli adulti illuminati, agli amanti del gentil sesso, agli estimatori d’arte e natura, a tutti quelli, in una parola, che sanno apprezzare la freschezza e lo splendore della giovinezza. Per cento franchi, cento franchi soltanto, cento franchi, non di più mademoiselle Coralie e le sue sorelle, qui presenti, e un giradischi copre la voce della megera, e mademoiselle Coralie si affaccia sul podio e fa la mossa a tempo di musica, e dallo spacco laterale dell’abito che le s’incolla alla pelle si offre una gamba fino alla coscia, provocando grida da pantera; mademoiselle Coralie e le sue sorelle, bellezze fatali come non se ne vedono più, comporranno per il piacere, la gioia e la delizia dei vostri occhi, all’interno del locale, dei quadri viventi capaci di resuscitare un morto. Donna barbuta. Animali ammaestrati. E tutto rolla e beccheggia. Grande ruota, montagne russe, autoscontro, aerei a reazione, cavallucci di legno, fauci e bruchi giganti, mostro di Loch Ness. Gridate, gridate, gridate, per eccitare il mostro, la bestia apocalittica. Per di qua, per di qua. Per i veri mangiatori di fuoco, l’uomo del Borneo, il bipede selvaggio, per di qua. Omelette al gasolio, salame di leone alla segatura di legno, al catrame e al petrolio, sono i loro piatti preferiti. Signore e signori, militari e ragazzi, dopo aver forgiato con i piedi nudi quella barra di ferro incandescente di fuoco e non di vernice, dopo essersi passato quell’attizzatoio incandescente di fuoco e non di vernice prendete l’oggetto in mano se non ci credete, dopo essersi passato, dico io, quell’attizzatoio sulle parti più sensibili dell’epidermide, e in particolare la lingua, e sentirete sfrigolare le carni e ne avvertirete l’odore, quell’uomo e quella donna, rari esemplari di una popolazione lontana, arrivati da una contrada ancor più lontana, ingoieranno davanti a voi, con una soddisfazione che potrete leggere sulle loro facce bestiali, con la stessa facilità di un giornale della sera, quel magnifico punch alla benzina, al quale aggiungeremo, per arricchirlo di vitamine, un mestolo di olio minerale e un po’di grumo di pipa. Per di qua, signore e signori. È uno spettacolo istruttivo, curioso e sorprendente. Lottatori, tiri a segno, lecca-lecca, lotterie. Vieni sulla mia spalla, tesoruccio, bambino. E la festa continua. E tutto rolla e beccheggia. Piombo sulla folla che s’è ammassata in basso e grida e urla e gesticola. Risalgo fino alla cima di una rampa e ridiscendo, nel fracasso del carrello traballante sulla rotaia. Vagoncini della grande ruota, illuminati da luci policrome. Apparecchi a reazione verdi e gialli. Il cielo, gli alberi di place de la Nation che dormono. Laggiù, Filippo II e san Luigi, sulle loro colonne. L’uomo del Borneo, il selvaggio. E scendo e salgo, m’inabisso ancora e mi raddrizzo. La brezza notturna, il vento della velocità che sferza il viso, sulla nuca, il respiro dell’uomo che mi avvinghia. L’urlo tragico della folla. L’incresparsi della folla e l’ondata. Tutte le attrazioni. Sempre più allettanti, come da Nicolet. Intermezzo sensazionale. Mi libero. Una botta in testa. Un’altra botta. E tutto rolla e beccheggia. Gridate, gridate, gridate. Mi affloscio, tutto danza e gira intorno a me, gli alberi, i palazzi a cinque piani, l’ingarbugliata struttura metallica dell’otto volante, urto le pareti del gigantesco imbuto maelstromico e poi tutto rallenta, rallenta, rallenta, forse come quando si muore. Tutto rallenta, subisco meno spinte, sballottamenti, scosse, urti, scrolloni. Scivolo in braccio a una nebbia ovattata, con un ultimo e brusco spasmo di stomaco. E poi, più nulla.
Dal fondo dei secoli, attraverso cento strati di pensieri confusi, attraverso l’intera festa di place du Trône, che turbina e mi riempie la testa, delle voci giungono alle mie orecchie intorpidite.
«Si occupi della donna».
Proprio così. Prima le donne e i bambini.
«Cos’ha?».
«Non si muove».
«E il tizio?».
«L’ho appena...».
Una voce debole, una voce passata alla lisciva, una voce garantita bianco Persil.
«E allora?».
«Morto».
Esplodono bestemmie, bestemmie vigorose, del genere che dico normalmente quando ho la forza di bestemmiare.
Respiro a pieni polmoni, raccolgo tutto il possibile in fatto di odori di fritti e di benzina, e, senza muovermi, socchiudo le palpebre. Sono stravaccato nel carrello delle montagne russe, ritornato al punto di partenza, a quella che chiamano stazione d’imbarco. Indovino una folla compatta al di là dell’uniforme blu mare, del cinturone nero e della fondina che mi ostruiscono la vista. Uno sbirro in primo piano, visto di schiena.
«Si occupi della ragazza», ripete qualcuno.
«Tiratela fuori da lì», ordina un altro.
È seduta sul sedile immediatamente prima del mio, inerte, riversa all’indietro, i lineamenti tirati, livida. I capelli bruni, lunghi e folti, mi sfiorano le ginocchia. Tre uomini, di cui uno in camice, si prodigano. L’agguantano come possono, senza alcun rispetto di pudore o convenienza, e l’estraggono dal carrello. L’abito blu che la modella risale fino alle cosce. Le gambe emergono da uno sbuffo di delicato nylon. Belle gambe. Bellissime gambe, finemente inguainate. Ho notato quelle gambe, quando è scesa dal mostro di Loch Ness. Ho notato anche che era sola, e siccome lo ero anch’io, l’ho seguita, ma senza abbordarla. Dopo tutto, avevo forse soltanto voglia di ammirarle le gambe. E quando ha preso posto sul super ottovolante, mi sono seduto semplicemente dietro di lei. Poi...
Il cinturone di cuoio nero compie un mezzo giro, la fondina passa a destra e a sinistra. Lo sbirro si china su di me, la sua mano mi strazia la spalla:
«Ehi!», fa, rude e secco.
«Sì», rispondo.
«Cosa succede?».
«Adesso glielo dico».
«Esca da lì».
«Ci proverò».
Mi aiuta a rialzarmi. Un fiotto di sangue mi affluisce alla zucca. Lo sento che ribolle sotto la scatola cranica. La folla che circonda curiosamente la giostra dov’è appena accaduto l’incidente la vedo attraverso una nebbiolina rossastra, irreale e decuplicata. Passo dal carrello al tavolato dell’imbarcadero. Barcollo sulle gambe molli come uno straccio. Impreco.
«Eppure non è la prima volta», dico.
«La prima volta cosa?», s’informa lo sbirro.
«Niente».
Mi aggrappo a lui. Mi abbandona bruscamente e mi sparpaglierei se un inserviente del super ottovolante non mi reggesse in tempo. Vedo lo sbirro esaminare il carrello, abbassarsi e passare la mano là dove avevo i piedi. Raccoglie un oggetto e viene a mostrarmelo. Il suo occhio riflette il lampo abituale, quello che indica la speranza di avanzamento rapido. Chiede (non l’occhio, il suo proprietario): «Cos’è questa roba?».
«Non lo vede? È un cannone».
«Un cannone?».
È un tipo che ha bisogno di prove. Oggi, in fatto di polizia, sono a posto.
«Sì, un cannone. Il mio. Ho allungato una botta sulla capoccia dell’altro balordo, per fargli mollare la presa, e poi m’è caduto ai piedi, quando sono mezzo svenuto dall’emozione».
«Dall’emozione?».
«Sì. Capita ai più coraggiosi di avere fifa. E non pretendo di essere più coraggioso di un altro. Non mi nutro di molibdeno».
Alza le spalle.
«Sono tutte chiacchiere. Io vedo solo questa».
E “questa” la picchietta con la punta dell’indice. La mia artiglieria. Si volta verso un suo collega. Il torpedone della volante ne ha scaricata una dozzina nei paraggi della giostra.
«Ti rendi conto?», fa il mio sbirro personale. «Un cannone».
Il suo amico si rende certamente conto, ma non dice nulla. Oscilla il capo. Tutto qui. L’altro ritorna da me.
«Andiamo a fare due chiacchiere al commissariato, vecchio mio. Mi sembra un bell’imbroglio, eh, Jules?».
Protesto.
«Nestor, non Jules. Non è migliore, ma ci tengo».
Ringhia, aggressivo.
«Ah, mi prendi in giro!».
«Neanche per sogno. Ecco i miei documenti, sangue di Dio e di Giuda immerdato!».
Bestemmiare mi fa un gran bene all’anima. Facilita e accelera il recupero. Cavo il portafoglio e lo tendo al poliziotto. Lo prende e, mentre lo apre, chiedo al simpatico addetto alla giostra, che continua a fare la bambinaia vicino a me, se non ha uno sgabello, per via delle mie gambe, sempre un po’ ammosciate. Ha l’occorrente. Mi siedo. Lo sbirro sfoglia le mie carte, cambia fisionomia man mano che procede nella lettura. Ma è un tipo, l’ho già notato, che ha bisogno di conferme, puntini sulle I e trattini alle T.
«Va bene», fa lui. «Si chiama?».
«Nestor Burma».
Arriccia le labbra. Mi domanderà come si scrive. No, non me lo domanda. Mi sono sbagliato sul suo conto.
«Bene. Benissimo. Il suo mestiere?».
«Sbirro privato».
Un piccolo sussulto di disapprovazione lo scuote.
«Investigatore», rettifica.
Ridacchio.
«È ancora lo stesso».
«D’accordo. Vedo che ha il porto d’armi».
«Sì. E c’è una cosa che non dicono i miei documenti. È che sono in ottimi rapporti col commissario Florimond Faroux, capo della squadra omicidi alla Polizia Giudiziaria».
Un lampo immediato gli illumina la pupilla. Il fatto è che la sua testa ha fatto un movimento ed è entrato nel raggio di una lampadina, per cui tradisce un senso di dignità offesa.
Brontola: «Dice questo per influenzarmi?».
Caccio un sospiro da intenerire un secondino.
«Sangue di Giuda, non sia così suscettibile!».
«Va bene. Non discuto. Ha ricevuto una botta oppure è più furbo di guanto sembra. E che lei conosca o no dei papaveri alla Tour Pointue, non cambia nulla alla faccenda. Non discuto. Ma mi piacerebbe che mi raccontasse come si sono svolte le cose».
«Volentieri».
«Qui c’è il suo portafoglio».
Me lo restituisce. Lo rimetto in tasca e indico col mento in direzione del mio gingillo, ancora in mano sua. Scuote la testa.
«Per ora lo tengo io».
Lo seppellisce nelle pieghe della mantella. E poi, in compagnia di altri due poliziotti sopraggiunti nel frattempo, aspetta.
«Non c’è un granché da dire, sa?», spiego. «Stavo seguendo una ragazza e... A proposito, che cosa le è capitato? La giovane in blu. La passeggera».
«S’è sentita male».
«Ah! Forse nel vederci azzuffare, no? Le ha messo una tale fifa che è svenuta. È comprensibile».
«Sì».
«Temevo che fosse una cosa più grave».
«No. Un semplice mancamento. La stava seguendo?».
«Sì».
«Perché?».
«Perché aveva delle belle gambe».
«Un corno».
«Un corno cosa? Non aveva delle belle gambe? Non ha notato che aveva delle belle gambe? In questo caso era proprio l’unico».
«D’accordo. Continui».
«Allora stavo seguendo quella ragazza. Sale sull’ottovolante. Salgo dietro di lei. Alle mie spalle s’installa un tizio, ma non ci faccio caso. Partiamo, la cremagliera ci issa e, hop, spicchiamo il volo. Abbiamo appena percorso pochi metri in discesa libera e stiamo abbordando un tornante, quando sento afferrarmi il petto da quel tizio come se fossi Brigitte Bardot in persona. Dico fra me: è uno che ha la cotta per te, o magari è un maniaco. Ma non posso dirmelo a lungo, perché capisco in fretta che l’uomo tenta di ribaltarmi di sotto. Naturalmente, io reagisco. Ci azzuffiamo. La cosa non passa inosservata, e in basso si raduna tutta una folla e sbraita, e vi avverte, è ovvio. Il tizio mi rifila un colpo di non so cosa sulla zucca, ma non mi stordisce al punto da farmi perdere la bussola. Cavo il pistolone e picchio con il calcio. Non avevo scelta. Adesso è lui che balla il valzer. Il mio aggressore. Siamo nella curva. Hop! Viene proiettato fuori che è un piacere. Io, gliel’ho appena detto, ci ho fatto il callo, non è la prima volta...».
«Fatto il callo a cosa? A scaraventare la gente da trenta metri di altezza?».
«A ricevere delle botte e a trovarmi nelle peggiori situazioni. Ma avere rischiato di fare quel bel salto era una novità, mi capisce? Finché lottavo per salvare la pelle, poteva andare. Ma dopo... La reazione, andiamo! L’essermi reso conto di cosa avevo evitato. Le paure retrospettive. Sono le peggiori. I nervi hanno ceduto. E ho fatto come la ragazza in blu: sono mezzo svenuto».
«Ce n’era motivo», disse uno degli sbirri.
«Sì», approva l’altro.
«E il tizio?», domanda il terzo, cioè il primo con cui ho avuto a che fare.
«Il tizio cosa?».
«Stava seguendo anche lui?».
«Assolutamente no. Non so neppure che faccia aveva. Capisce, quando si è lassù, si corre, si beccheggia, un po’ alla luce, un po’ al buio, e le luci erano gialle, rosse, verdi... Insomma, non sarei in grado di dirle che faccia avesse: bella o brutta. Certamente un brutto ceffo».
«Per il momento, in ogni caso, non è bella da vedere».
«L’immagino. È morto, no?».
«Sì».
«È... ehm... è sempre là dov’è caduto?».
«Sì».
«Potrei vederlo?».
«Perché no?».
Mi alzo e mi passo la mano sul viso. Mi sento terribilmente stanco, ma comunque sto meglio di prima.
«Allora», fa lo sbirro, «non lo stava seguendo, eh?».
«No. Perché avrei dovuto seguirlo?».
«Credevo che lei fosse un investigatore privato».
«Ah. Per questo pensava che lo seguissi?».
«Proprio così».
Non rispondo. Siccome vuole pensare, che pensi.
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