Sono lieto di presentarvi la seconda tappa del blogtour organizzato da HarperCollins dedicato al romanzo: Il movente della vittima di Giuseppe di Piazza. Il mio post riguarderà un estratto del romanzo, mentre queste tutte le tappe:
Palermo, autunno 1984
Minico
posò la pistola sul tavolino, scomponendo con il
calcio
la primiera di tre sette e asso di denari che pochi
minuti
prima gli era valsa la vittoria. Una partita bella,
giocata
sul filo dei punti, molto combattuta. Alla fine Minico,
dopo
aver incassato i complimenti, aveva sparato al
suo
avversario.
Appena
libero dal peso dell’arma, sentì la mano
destra
tremare, e non riuscì a capire se i fremiti fossero
dovuti
all’emozione o al rinculo. Minico non aveva esperienza
con
gli omicidi, eppure il suo primo, e forse ultimo,
gli
era riuscito perfettamente. Il cadavere dell’avvocato
giaceva
abbandonato sulla poltrona di velluto porpora,
la
fronte sfigurata da un unico colpo sparato con precisione.
Gli
occhi, solitamente percorsi da una luce saettante,
intelligente,
erano spalancati nell’ottusità della morte. La
palpebra
sinistra provava a fare da modesto argine ai rivoli
che
colavano.
Minico
capì che la nostra testa è piena di sangue, più
di quel che
avrebbe mai detto. Lento, denso, inesorabile,
come se dentro
quel corpo ci fosse ancora una pompa che
lavorava, il sangue aveva
travalicato i confini del viso e
ora
stava inzuppando la vestaglia dell’avvocato. Forzandosi,
riuscì
a staccare gli occhi da quello spettacolo privo
di
possibili colpi di scena e girò lentamente la testa
alla
sua destra, finendo per guardare un giovane uomo
in
pantaloni neri, camicia bianca, cravatta e gilet, che gli
apparve
nell’enorme specchio che sormontava la cassapanca.
Si
ammirò.
Sono
elegante come un ballerino,
disse tra sé, concedendosi
il
lusso della divagazione. Invece Domenico Cascino
detto
Minico, ventiquattro anni appena compiuti, era
elegante
come tutti gli altri camerieri del Grand Hotel
Aziz.
Né più né meno. Indossava la divisa prevista dal
contratto
di lavoro, e quegli abiti, diventati ora abiti di un
assassino,
non erano neanche suoi.
D’improvviso
sentì battere dei pugni sulla porta.
Una,
due voci che insieme urlavano: «Aprite!» per poi domandare
con
un grido: «Avvocato! Sta bene?».
Minico
udì quegli strepiti e sorrise. Era successo quel
che
doveva succedere. Tornò a guardarsi nello specchio,
giusto
il tempo di aggiustare il nodo della cravatta sottile
e
nera, mentre una voce maschile all’esterno sovrastava
le
altre: «Avvocato! Che cosa è stato? Fu un colpo di rivoltella?».
Ma
chi la usa più la rivoltella?,
rise tra sé e sé Minico,
tornando
a posare lo sguardo sull’automatica sul tavolino.
Poi
fece tre passi, senza più voltarsi indietro, e andò
ad
aprire la porta con grazia, come per far entrare il carrello
del
servizio in camera.
«Prego»
disse a quella piccola folla, composta dal
direttore,
dalla governante, e da un paio di cameriere
del
piano, che si precipitarono nella suite 224, quasi travolgendolo.
Nessuno
di loro lo degnò di uno sguardo,
tutti
gli occhi si fissarono con buona sincronia sul corpo
dell’anziano
signore, la cui faccia sembrava ora dipinta
da
Francis Bacon. Il piccolo gruppo si ammutolì. Nessuno
di
loro capì all’istante che cosa fosse accaduto. Tutti
compresero
però che, di qualunque cosa si trattasse, sarebbe
stato
meglio non fosse accaduta. Per il buon nome
del
Grand Hotel Aziz e per l’esistenza, ora terminata, di
quell’affezionato
cliente.
Minico
li osservò e con il mento indicò loro la pistola.
La
governante fece d’istinto un salto indietro. Le cameriere
si
allargarono come per non impallare la ripresa
della
scena. Minico indicò daccapo la pistola e sussurrò
con
tono assente: «Sono stato io». Poi si sedette sulla dormeuse
ai
piedi del letto.
La
suite 224 era nota per la ricchezza dei suoi arredi.
TRAMA:
Autunno 1984. È appena scesa la sera nella suite 224 del Grand Hotel Aziz di Palermo. Come ogni giorno l’avvocato Prestia, che lì risiede da oltre vent’anni senza mai uscire, dopo la cena si è regalato la consueta partita a carte con Minico, il suo cameriere personale. Una bella partita, combattuta fino all’ultimo. Improvvisamente risuona uno sparo. Tutti accorrono nella camera d’albergo. Le carte sparpagliate ovunque, l’avvocato riverso sulla sua poltrona di velluto, morto. A ucciderlo è stato proprio Minico, che ancora stringe in mano la pistola. Eppure, incredibilmente, il cameriere non fugge. Si fa arrestare e rimane in silenzio. E in silenzio rimane anche di fronte alla polizia, ripetendo senza sosta solo le sue generalità. La notizia arriva presto alla redazione del giornale dove lavora Leo Salinas, detto Occhi di sonno. Leo salta in sella alla sua Vespa e accorre subito, ma le informazioni sono poche. Ma il giovane giornalista non si arrende, gli occhi del killer sono quelli di un giovane ragazzo come lui. Un ragazzo che ama la vita, l’amore, le donne (forse troppo), il mare e la libertà, non la morte e il sangue. C’è qualcosa sotto e solo Leo è in grado di capire cosa.
Dopo il grande successo di Malanottata, vincitore del prestigioso Premio Cortina D’Ampezzo, Giuseppe Di Piazza ci regala una nuova avventura di Leo Salinas, cronista di nera. Un delitto inspiegabile, un hotel in cui si nascondono torbidi segreti, un’ambientazione unica, disperata, violenta.
GIUSEPPE DI PIAZZA
Responsabile dell’edizione romana del Corriere della Sera, è stato a capo di Sette, Corriere della Sera Magazine e Max. Comincia la carriera giornalistica nel 1979 a L’Ora di Palermo. Dal 1986 al 2000 è alMessaggero. Qui è capocronista, editorialista, caporedattore centrale. Dalla fine del 2000 approda a Milano, in Rcs. Ha pubblicato quattro romanzi e fatto diverse mostre fotografiche. Malanottata ha vinto il Premio Cortina d’Ampezzo 2018
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